A te che ti fermi e li guardi entrare
di Davide Rondoni
Sono iniziate le scuole. Ci sono problemi, come al solito. Ma io fisso te, me, genitore che si ferma fuori dalla scuola. Padre, o madre che tu sia. Fermo quando resti in piedi, nella luce varia dei mattini. O seduto in auto, da solo.
Tutti parlano di loro che entrano: quanti sono, quante aule mancano, quanti prof. E che riforme. Ma io fisso te. Quando accompagni i tuoi figli e li vedi entrare in un mondo che non è più sotto la tua influenza. Vanno dove altri parleranno, diranno cosa fare, e cosa guardare e come pensare. Li vedi andare, piccoli, verso ciò che non conoscono. E che non conosci neppure tu. Se ne vanno da te. Più chiaramente. Sì, d’accordo, il rapporto con le maestre, gli organi collegiali, le comunicazioni scuola-famiglia… C’è tutto quel che occorre, se si vuole, perché la famiglia sia collegata alla scuola. Ma no, non sai dove vanno. Dove cominciano ad andare. Li puoi immaginare, ma è il primo posto dove non c’entri. La prima loro vita senza che t’impicci. Adesso puoi iniziare a chiedere loro: allora, com’è andata ? Come a uno che torna da un posto che non conosci.
E quel “qualcuno” iniziano ad essere loro, i tuoi figli. Che pensavi di conoscere. E che inizi a non conoscere più, per iniziarli a riconoscere. Come non tuoi. Come gente che ti è arrivata tra le braccia, e che se ne va. Che se ne va dove deve andare. E che si volta a guardarti per non avere paura. Si volta a vedere che luce hai negli occhi. Perché, cos’hai da dare loro ora? Sì, il pane. E speriamo il companatico. I vestiti. E qualcosa per girare. Ma loro andare devono, e di quel che impareranno molte cose non le sai. Nemmeno ti ricordi le operazioni di aritmetica per aiutarli a fare i compiti! E ti stupisci di come fanno ad imparare così presto l’uso del pc. E non sai cosa sapranno. Cosa avranno il piacere di scoprire, di imparare. E dolore di scoprire. E a che cosa dedicheranno la loro intelligenza, il loro cuore.
Non riuscirai a dare loro tante istruzioni. Probabilmente ti lasceranno indietro. Ma si volteranno sempre, anche tra tanti anni. Per vedere se hai avuto paura. E che luce avevi negli occhi. Per vedere cosa stavi pensando vedendoli andare nel mattino a scuola: vanno verso la vita o verso il tradimento della vita? Verso la grande fregatura, o verso la grande avventura? Anche quando non ci sarai più, e starai in piedi dietro le nuvole o seduto in un’automobile celestiale (speriamo), si volteranno a guardare se chi li ha accompagnati fino alla porta che solo loro possono varcare, ha avuto paura. O era certo che qualcosa di buono c’è oltre la soglia di ogni esperienza. Non c’è nulla come il dramma della paternità. E della maternità. Che lascia andare. Che non trattiene. In questi giorni tutti i giornali parleranno di loro, dei marmocchi. E dei ragazzini, e dei giovanotti. Del loro entrare, del loro mischiarsi tra razze varie, delle loro facciotte simpatiche o foruncolose, della loro serietà maestosa e dolcissima di seienni o di quindicenni. Del loro tesoro che si mette nelle mani della scuola.
Strana consegna, e perciò della enorme responsabilità. E ministri, esperti, statistici diranno la loro. Ma io getto uno sguardo a chi resta sulla soglia. A te, che come me, li hai visti sparire dietro la porta a vetri. E ti sembra strano commuoversi per così poco. E forse pensi: no, non è poco. È tutto quel che devo fare. È questo, in fondo, educarli. Che vadano, e quando si voltano, e quando tornano a raccontare, trovino uno sguardo interessato al vero della vita, e che non ha paura. Come quello di chi ti è stato padre. Senza avere un padre, infatti, senza uno con quello sguardo certo, non li avresti messi al mondo. I figli, quando li guardi veramente, ti chiedono di chi sei figlio tu, da dove hai preso quello sguardo.
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